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2.5 IL TEMPO DELLE TRIBÙ: una socialità errante, i nuovi nomadi

Michael Maffesoli, nel libro "Il tempo delle tribù" (1988) interrogandosi sui fenomeni sociali postmoderni, mostra come il nomadismo può essere considerato come una delle figure emblematiche della nostra epoca. Il suo intervento è fedele ad una sociologia comprensiva, che usa presentare i fenomeni sociali e non dimostrarli o spiegarli. L'autore intende anche mettere in opera una "metafisica sociologica" che permetta di mostrare il paradosso della stessa epoca: di fronte alla globalizzazione del mondo, di fronte a una società volendo positiva, liscia, senza asperità, di fronte a uno sviluppo tecnologico e a un'ideologia economica dominante, insomma, di fronte a una società che si afferma piena e perfetta, si esprime la necessità del "vuoto", della perdita, della "dépense" (1), di tutto ciò che non si contabilizza e sfugge al fantasma del denaro (dei numeri, delle cifre) e dell'asservimento.

(1): Termine francese non molto traducibile se non col termine "dissipazione", ma sinonimo del concetto proprio del rave e della "voglia di perdersi" al desiderio di libertà scrollandosi di dosso la mortifera quotidianità della vita e il surplus di orpelli inutili e falsi che la società postmoderna del consumo e dello spreco in nome del mercato è portata a creare.

Maffesoli ci porta a riflettere sull'epoca moderna, caratterizzata dallo slittamento dal nomadismo alla sedentarietà: il passaggio dalle comunità ai comuni e da questi alle entità amministrative più grandi, per arrivare allo Stato-Nazione, va di pari passo con la nascita di un potere tanto astratto quanto lontano e nascosto. La mancanza di flessibilità e l'assegnazione degli individui ad una funzione (professionale, affettiva o ideologica) che hanno dominato l'epoca moderna possono essere il sintomo di una chiusura mortifera.

Oggi, questa meccanica sociale, che tutto pianifica e razionalizza, è grippata. L'onnipotenza, o "violenza totalitaria", s'inverte e diviene impotenza: "il pieno diventa poroso". Così assistiamo al ritorno del nomadismo e ci confrontiamo col fenomeno dell'erranza. Nel campo del lavoro o del consumo, del turismo o del viaggio, sul piano ideologico o nei rapporti sociali, l'uomo postmoderno ne è "impastato". E prima di tutti, portando questo concetto molto lontano, ci sono arrivati i ravers, perché abituati alla dépense , all'attraversamento e al nomadismo anche psichico, e perché oppongono la loro eterogeneità all'omogeneità globalizzante. Il declino dello Stato-Nazione e delle grandi ideologie sono fattori di questa nuova aria dei tempi. Questo fenomeno è anche presentato in un insieme di rinvii a una concezione organica del mondo che supera le stabilità identitarie che hanno caratterizzato l'epoca moderna.

Il nomadismo attecchisce dove si esprimono elementi eterogenei, a volte contraddittori, quando si è in attesa di un equilibrio a venire, quando non si è più e non si è ancora. E' su questa armonia conflittuale che l'individuo, come la società nel suo insieme, si rinnova. C'è, certo, bisogno di un territorio solido dove possa radicare, predisposto alle istituzioni, con le loro abitudini sclerotizzanti e fossilizzanti e la perdita di slancio costruttivo che esse implicano.

Così, l'erranza primitiva, o puntuale, non è solo una sorta di "respirazione sociale" ma essa rimanda ugualmente a una caratteristica umana. Il confronto con l'estraneo, lo strano, e lo straniero permette all'individuo di vivere la pluralità strutturale insita in tutti e in ognuno. L'erranza è finalmente, un vettore di socializzazione importante.

L'uomo postmoderno, in un movimento di ex-stasi, esce dal ruolo dentro il quale è imprigionato. Il nomadismo è quindi una sorta di ascesi, che permette un ampliamento e una liberazione di sé a qualche cosa di più grande inglobante la terra, il mondo e gli altri. Così, l'apertura agli altri, l'accoglienza dell'estraneo, è una maniera di accogliere lo "straordinario" e di integrarlo nella vita quotidiana. Ecco la funzione dell'erranza: vivere una doppia tensione, da una parte, in direzione dell'estraneo (dell'esterno, della frontiera) e delle sue potenzialità e, d'altra parte, in direzione del mondo e delle sue ricchezze. Secondo Maffesoli, il nomadismo è dunque una forma di inclusione dentro una collettività globale, rinviante a una visione ecologica del mondo che supera e attraversa le separazioni e le distinzioni sociali ed epistemologiche che hanno caratterizzato il pensiero occidentale. Rompendo le chiusure e gli irrigidimenti individuali e le stabilità identitarie, restaurando la mobilità, professionale, ideologica o amorosa, l'erranza ridona la vita, rianima la vita personale e comunitaria. Quindi sta nel nomadismo, nel radicamento dinamico e nel territorio fluttuante e variabile, il movimento della nostra epoca.

Durante un rave si svolge un rito tribale, con i tamburi e tutte le sensazioni che procurano i vari strumenti e l'entrata emozionale nella musica. L'esperienza di un rave è quando entri nella musica. Nel corso degli anni siamo arrivati a un accostamento alla dimensione della tribalità, a un modo anticonformista di intendere la vita. Io penso che l'uomo nasca per stare bene, per avere rapporti semplici, tranquilli, senza frustrazioni che sono create da un tipo di società che è diventata troppo complicata per l'uomo medio, marginale, escluso dai centri del potere decisionale. Quindi la musica serve da tramite, crea unione, crea un'esplosione comune e riesce a unire tante persone. La musica crea una tribù moderna, un tribalismo tecnologico, è questa la sensazione che si prova in una folla danzante, e in questa cornice il DJ evoca la figura dello sciamano; secondo G. Lapassade, il DJ - come il "maestro" nel rito della lila degli Gnawa del Marocco - contribuisce a produrre il clima di trance e a guidare, dall'inizio alla fine, il percorso del viaggio (Lapassade, 1997).

La techno guida le coreografie del movimento, la musica viene assorbita dal cervello: in quel momento il cervello riceve una carica, la carica si trasforma in energia, l'energia penetra nel bioritmo, nelle molecole dell'organismo e determina il ritmo.

".mi piaceva questa nota di fondo che era la cassa dritta, cioè questo boom boom, questa pulsione che veramente andava sempre avanti, sempre avanti, mi piacevano i momenti toccanti tipo l'alba; c'era un momento all'alba in cui lentamente tutti i sound system era come se si svuotassero, e tu allora seguivi questo svuotarsi e defluire, e andavi verso il bagnasciuga di questa linea dritta di spiaggia e vedevi che c'era una fila lunghissima di persone accovacciate sul bagnasciuga che fumavano, mangiavano, e guardavano il sorgere del sole di fronte a loro.allora andavi lì coi tuoi amici e ti accovacciavi insieme agli altri, e facevi parte di questa fila e c'era.. non so..un'intensità in quel momento." (Intervista a Stek)

Nella cornice del rave il ballo si delinea come un ambito comunicativo dove, osserva Chambers, "le zone esplicite e implicite dei piaceri socializzati e dei desideri individuali si intrecciano nella momentanea scoperta della ragione del corpo (Chambers, 1986, p.21). La struttura delle relazioni coinvolge così un modello di tensioni che attraversano diagonalmente il tessuto sociale e risiedono non soltanto nell'antinomia tra dovere e piacere, ma nella stessa oscillazione contraddittoria "tra una visione tradizionale del piacere ("relax", divertimento) e un momento più profondo, interiorizzato, in cui si persegue un'autentica autorealizzazione sessuale e sociale, privata e pubblica"( Ibidem ).

La speculazione tribale della società sviluppata da Maffesoli (1988) serve a comprendere meglio il sociale che si disegna davanti a noi. Il tribalismo appare come l'espressione dell'ideale comunitario dell'individuo postmoderno che cerca di rompere il suo isolamento: nel quadro del rave il tribalismo si esprime al meglio perché l'individuo non è isolato, perché partecipa, realmente, immaginariamente o virtualmente, ad una comunità vasta ed informale. Si ha effettivamente spesso una sorta di comportamento paradossale che porta gli individui a cercare la compagnia di altri, ma non forzatamente l'interazione e ancora meno la rottura dell'anonimato. Nella società postmoderna si cerca di rompere l'isolamento senza sopportarne il prezzo: il legame con gli altri. Si è d'accordo a vibrare al fianco di altri e con gli altri ma questo deve avvenire senza alcun obbligo di legame sociale di una parte come dell'altra. Ci si può quindi domandare se il concetto di condivisione è appropriato per qualificare l'emozione sentita a fianco di altri. Si propone dunque qui il concetto di emozione contigua per definire questa sensazione di gregario anonimo, che si oppone all' emozione condivisa in un'attività detta di socialità come quella del rave.

Maffesoli (1988) sostiene che nei momenti di fondazione di questo tipo di comunità, come succede nel microcosmo del rave, tende a predominare il pluralismo delle possibilità, l'effervescenza delle situazioni, la molteplicità delle esperienze e dei valori: tutte cose che caratterizzano la gioventù degli uomini e della società. E questo è a mio parere il momento culturale per eccellenza, perché come afferma di seguito Maffesoli (1988, pag.93), una strutturazione sociale qualsiasi, prima di civilizzarsi e finalizzarsi, è un vero e proprio "brodo di cultura", in cui ogni cosa e il suo contrario sono presenti.

Il brodo di cultura è brulicante, mostruoso, prorompente, ma nello stesso tempo ricco di possibilità future. La massa non si proietta, non si finalizza, non si politicizza, ma vive il vortice dei suoi effetti e delle sue molteplici esperienze, è dionisiaca e confusionale. In questi momenti si crea un'anima "collettiva" nella quale disposizioni, identità e individualità si cancellano. Una tale entità effervescente è fatta di noi e di prossimità e può essere, nel contempo, perdersi individuale e riappropriazione della persona (l'individuo ha una funzione, la persona un ruolo), all'individuo unificato si oppone la persona eterogenea capace di una molteplicità di ruoli. Maffesoli parla di effervescenza, di brodo di cultura, di prorompenza, tutte cose che odorano di caos e non governabilità come il fenomeno dilagante delle feste illegali. La socialità che si crea nella comunità dei ravers assomiglia alla logica della fusione della massa espressa da Maffesoli (1988): la fusione della comunità può essere perfettamente disindividualizzante, e non implicare una piena presenza nell'altro (che rinvia alla dimensione politica), ma stabilisce un rapporto "cavo", definito rapporto tattile: nella massa ci si incrocia, ci si sfiora, ci si tocca, si stabiliscono interazioni, si operano cristallizzazioni e si formano gruppi (Maffesoli, 1988, pag.104). Ci si inviano piccoli messaggi per via informatica, si attivano varie solidarietà, e grandi riunioni musicali, si delimita un nuovo spirito dei tempi che si può chiamare socialità errante, alla base si trova la relazione faccia a faccia e per contaminazione, l'insieme dell'esistenza sociale viene coinvolto da questa forma di empatia.

Non si potrebbe sottolineare meglio l'efflorescenza e l'effervescenza del neo-tribalismo che, nelle sue diverse forme, rifiuta di riconoscersi in un progetto politico, non si inscrive in nessuna finalità, e la sua unica ragion d'essere è la cura di un presente vissuto collettivamente. Contrariamente alla stabilità indotta dal tribalismo classico, il neo-tribalismo è caratterizzato dalla fluidità, dagli assembramenti puntuali e sparpagliati: così si può descrivere lo spettacolo della strada nelle moderne megalopoli. Così si può descrivere il fenomeno dei rave parties che ci invita ad un costante travelling: come socialità, se caratteristica della socialità è il fatto che la persona recita ruoli, sia all'interno della sua attività professionale, sia in seno alle diverse tribù alle quali partecipa, cambiando costumi di scena e seguendo i suoi gusti, ogni giorno va a occupare il proprio posto nei diversi giochi del theatrum mundi. Mentre la caratteristica del sociale era che l'individuo poteva avere una funzione nella società e funzionare in un partito, in un'associazione, in un gruppo stabile(Maffesoli, 1988, pag109).

Il rave party è una festa libera, nel cuore della quale si ricrea il legame sociale, o meglio una socialità elettiva, che si crea con il gomito a gomito d'individui e di gruppi, attraverso il relazionarsi, dove non prevale tanto l'obiettivo da raggiungere, quanto il fatto di stare insieme.

"All'interno di una folla eterogenea la festa fa rinascere un accordo, una solidarietà, un valore comune. Essa si oppone all'indifferenza della massa, all'esperienza quotidiana della solitudine dell'uomo che si nega fino a non esistere più. Certamente il rave non farà rinascere la comunità. I ravers non hanno un dio comune, sono soli nel loro delirio, soli nella loro trance anche se essa è collettiva. Ma le loro esperienze sono abbastanza vicine da sentirsi insieme, in accordo, da poter scambiarsi, essere presenti gli uni agli altri, senza parlare, durante la festa." (Fontaine, Fontana, 1996, pag.95).

La ricerca di Fontaine e Fontana (1996) mostra che il rave si svolge nel rispetto totale della libertà altrui. La maggior parte del tempo, i danzatori non si parlano e la danza non da luogo ad alcun gioco di seduzione. I danzatori delle feste hanno gli occhi chiusi, assorbiti dal piacere che loro procura l'esplorazione della loro interiorità sensoriale e psichica. Ma, i ravers sperimentano un altro tipo di relazione sociale perché essi sono anonimi nella folla del rave ma per il fatto del loro interesse comune (la musica, fare la festa, ballare, delirare..) percepiscono l'altro come rivelazione immediata di sé stessi. Tutti gli altri si agitano, segnano il ritmo e sembrano sentire le stesse cose. E' una sensazione come di essere una cosa sola con tutti ed è bello guardare gli altri ballare.

".mi sembrava come se fosse tornare indietro nel tempo all'età primitiva, che a me ha sempre affascinato, di tribù che ballano per dimostrare qualcosa comunque; che può essere la libertà di sentirsi libero di fare quello che vuoi, di parlare quanto ti pare e piace..C'è sempre il battito della musica. Tutti lì a ballare insieme - cioè per come sono fatta io che probabilmente sono una persona abbastanza chiusa - il momento più bello è l'idea di ballare e guardarmi intorno e vedere delle facce che mi sorridono.è come non so, un momento di comunione, tutti insieme a ballare, una comunità." (Intervista a Simona)

Si critica spesso l'assenza di dialogo tra i ravers, ma, in realtà, se la parola è assente, il rave veicola una nuova utopia: quella della comunicazione non-verbale. Quest'ultima sembra semplificare le relazioni interpersonali. In queste occasioni, quando tutti i codici verbali e le regole implicite di scambio sono aboliti, le relazioni tra le persone sono dirette e appaiono come più sincere di quelle ordinarie. Si notano un'attenzione per l'altro e una solidarietà tutte particolari. I ravers condividono sensazioni, emozioni, piacere attraverso la danza. Ci si scambia sguardi e sorrisi complici. Di tanto in tanto due persone si avvicinano e scambiano qualche cosa mentre ballano, a gesti. Si toccano, si abbracciano qualche volta ma senza mollare il ritmo inerente al gruppo nel suo insieme. Succedono tante piccole cose con degli sconosciuti che non sono veramente sconosciuti, perché il rave è uno spazio di tolleranza, di libertà, di non aggressività e di legami comunitari, nel seno del quale i rapporti umani sono meno artificiali anche se sono la maggior parte del tempo anonimi.

"Per me il rave è un sacco di cose. E' la storia più bella che c'è in giro. Perché fino adesso io cose come il rave non ne ho viste in nessun ambiente. E' l'ambiente più fico che c'è. Ci sto troppo bene, c'è bella gente, si c'è anche un sacco di schifo, i ketaminusi, ma a me che me ne frega, alla fine dei conti ci sono un sacco di brutture, da tutte le parti, però se io devo fare. veramente devo aprire gli occhi, come il rave non ce n'è, l'atmosfera che si vive al rave, non si vive da nessuna parte. E' una cosa proprio a se stante. E' un punto di aggregazione è una zona senza leggi e senza regole dove però stranamente tutti quanti poi, alla fine, si tollerano e non succedono mai casini, quando mai tu hai visto al rave la mega rissa, tutti contro tutti? Come quelle da discoteca?." (Intervista a Luciano)

E' una rottura col quotidiano che al confronto appare violento e inumano, i ravers usano il termine "andare fuori" per esprimere l'atto di estrarsi volontariamente, gratuitamente, da una vita sociale regolata, impostata, per vivere altre cose. Di fronte al malessere sociale diffuso, di cui la causa non è identificabile, il rave veicola per molti la credenza in un'altra realtà possibile. Per Fontaine e Fontana (1996, pag.81-82):

"Il rave genera un sentimento comunitario che colma temporaneamente la sensazione di vuoto e di isolamento generato dalla società nel suo insieme".

".il bello di divertirsi e non pensare a niente e.di ballare 10-12 ore ininterrottamente con tutti i tuoi amici e di stare a parlare al sole per altre dodici ore, bevendo e arrivando alla calma che ti permette di dire: "ragazzi, quanto ci vogliamo bene"." (Intervista a Cristina)

"ho sempre avuto delle belle esperienze, bellissime esperienze vissute insieme, però il profondo non lo ho mai sentito. Mentre nella techno, nei party techno cioè dentro la fabbrica ci vogliamo tutti bene, cioè al di la che una persona ti piaccia o non ti piaccia, comunque sia, è una persona che è lì con te e ti fa piacere vederla, cioè per me è sempre stato così,è una impressione. [.] Poi è anche un'altra cosa particolare della techno questa, è assurdo: cioè che ci sia così tanta gente e non succeda niente, cioè non succede niente alla fine, non succede che ci sia qualcuno che sta male, cioè succede raramente che qualcuno stia male. Cioè quello che succede lì dentro è proprio, secondo me, un'interagire tra le persone, comunicazione, ma .forte quella, al di là di quello che tu puoi fare e tutto il resto, cioè puoi fare quello che vuoi, ben venga, poi appunto ti apri un attimino, non so, ti rendi conto come cresci, è appunto, proprio come fare un viaggio, un viaggio dove tutti gli altri vivono in un mondo completamente allucinante e ti fanno conoscere delle cose, cioè la cosa bella è questa." (Intervista a Simona)

Soltanto poche stagioni fa, teorizzare (e praticare) il nomadismo, l'anti-specialismo, la globalità dei linguaggi, l'espansione dei modelli antropologici, la fine del lavoro convenzionale, era generalmente considerato una fantasia bizzarra o irritante. Adesso invece, alla luce dell'impetuoso mutamento tecnologico e comunicativo, appare sempre più evidente il profondo, assoluto realismo di quelle formule vitali. E' accaduto perché il modello umano tradizionale (fondato sulla stabilità, sulla logica, sul dominio della necessità, sull'arroccamento di identità parziali e definite) non è più all'altezza di uno slancio evolutivo che lo stesso sviluppo tecnocomunicativo sta reclamando. L'esperienza dei ravers insegna che ormai stabilità e rigidità sono malattie comportamentali, che la logica razionale è poco più di una superstizione, e che il rifugio nelle identità chiuse (razziali, politiche, religiose, professionali, sociali, linguistiche, culturali) non è che il sintomo della paura ossessiva di un modello ormai al tramonto.

Superando confini geografici e barriere ideologiche, veloci e flessibili di pensiero, nei ravers cresce il desiderio di esprimere la propria creatività, e in più campi. Viene rigettata l'alienante divisione tempo di vita/tempo di lavoro, che assimila il lavoro a non vita. Il problema semmai è dare un senso al lavoro, un valore che va oltre la misura del denaro e del tempo. Il raver, poiché ricerca lo sradicamento fisico-mentale diventa inevitabilmente un elemento di rottura dello status quo. Lo spaesamento psico-emotivo all'inizio genera smarrimento, ben presto però contribuisce ad affinare le percezioni sensoriali, aiuta a recuperare l'atteggiamento critico, consente un ascolto più partecipe e profondo della realtà. Da qui il rifiuto delle strategie di omologazione sociale, modello consumista in primis. Le aspirazioni a una felicità-possibile, a una vita-avventura, si insinuano così nelle maglie delle città metropolitane e nei capannoni abbandonati dove i raves hanno luogo. Ciò comporta una rivalutazione/riappropriazione dei propri tempi di vita, la riduzione dei tempi predefiniti (da altri) a favore dell'autorganizzazione degli spazi e delle priorità (la famiglia, l'apprendimento permanente, l'impegno nel sociale), la ricerca di forme di sviluppo alternative(Dagnino, 1996).

L'attuale nomadismo nei raves è uno stato mentale, una metafora esistenziale, oltre che una scelta di vita

c'è un legame col nomadismo, però è legato più a un discorso di tribe, e a un discorso di illegalità di vita, cioè c'è chi vive sempre nel furgone e si sposta da un posto all'altro e sono scelte molto radicali..io non l'ho fatto.è una società completamente al di fuori anche dal punto di vista spaziale rispetto alla società "normale"..cioè col fatto che è una specie di tattica in realtà quella di andare in giro un po' qui un po' lì, determinata dal fatto che costa poco e ti puoi permettere una certa libertà. è una tattica che si è auto fatta questa piccola società per potersi gestire meglio rispetto alle risorse che ha.intendo illegalità generalizzata. [.] è una spinta di tutta la società, della società che vuol fuggire da se stessa, i facenti parte di questa società che si sono rotti, hanno trovato un metodo per andare un po' fuori. [.]Del nomadismo culturale se ne parla già da anni come una caratteristica della cultura odierna però da qua a fare il nomade proprio tipo gli zingari ne passa di differenza.Sono gente che ha poco da perdere, fondamentalmente e che se lo può permettere, che poi ci sia uno "strippo" da parte di tutti quanti a rimanere poco in una città schifosa come Milano e poter fuggire il più presto possibile mi sembra normale.[.] la piccola società che intendo quando parlo io è fatta soltanto praticamente dalle tribe italiane e pochissimi altri che ci stanno attorno e si tratta in tutta Italia di forse 200-300 persone, che hanno provocato il mio interesse, che hanno questo stile di vita nomade e sono veramente tribali, hanno provocato il mio interesse, fondamentalmente, perché è gente che ha vissuto quel punto zero di rapporti sociali, civili, che è più simile allo stare in rapporto semplicemente con la natura, cioè.praticamente è gente che è arrivata a perdere tutto, possiamo dire che è arrivata a perdere tutto e poi pian piano si è ricostruita qualcosa di assolutamente al di là degli schemi, normali, soliti, e di tutti quegli schemi soliti gli interessa ben poco. Queste persone mi facevano pensare all'idea del tribalismo e a una comunità di persone, e così è. Solo che non cresce, è sempre uguale a se stessa, è difficilissima da gestire questa comunità. Comunque i confini sono labilissimi, non c'è un confine vero e proprio, per cui non possiamo proprio anche porre dei confini tra questa piccola società e la società che sta intorno a noi, sono frastagliati e labili, per cui non è che sia una comunità chiusa da questo punto di vista, nel senso che gli appartenenti a questa comunità sono contemporaneamente anche appartenenti ad altre comunità ad altre situazioni, tipo la città di Milano ad altre città, all'università, al lavoro, pochi.[.] chi si sceglie certi stili di vita lo fa in una maniera totale, radicale e quindi non è un gioco, cioè il problema è che qui inizi come un gioco e poi ti accorgi che non è un gioco.è vivere, è vivere se tu stai lì due o tre giorni a settimana a venticinque trent'anni, ormai ci vivi, e ti cambia, ovvio, si ma non nel senso che ti dà qualcosa, anzi, è ben lontano da tutti quei discorsi tipo: "ho capito qualcosa", anzi, si è vero che qualcosa capisci, però non è importante, l'importante è divertirsi. (Intervista a Bera)

E il nomadismo è uno stile di vita continuo, la TAZ no, è discontinuo, tu puoi avere qualunque tipo di vita e farti tutte le TAZ che vuoi. Il nomadismo è una scelta radicale, perché tu vivi così, punto, e vuol dire che escludi una cifra di cose che potresti fare, cioè io ho avuto la tentazione di dire "basta, ma ne vado e inizio a vivere tra tutti gli squat d'Europa", va beh, io ho avuto la tentazione anarcoide però la scelta è abbastanza analoga a quella del comprare un furgone e vivere con una tribe, ma io l'ho accantonata perché non avrei potuto studiare. Cioè la cosa che mi ha fatto poi decidere NO è che io non avrei potuto studiare. Cioè o che comunque tutto sarebbe stato più complicato, perché se vivi così come fai a comprarti i libri piuttosto che i dischi, piuttosto che a portarteli in giro, cioè tutto diventa molto più difficile. (intervista a kiara)

E' la consapevolezza interiorizzata che la realtà è sempre transitoria, in divenire, che vivere richiederà un costante esercizio di adattamento a parametri sempre diversi e più complessi. Muoversi non è più spostarsi ma attraversare universi di problemi, mondi vissuti, paesaggi di senso. Ecco allora che i ravers, moderni cavalieri erranti si propongono come antesignani di una profonda trasformazione socio-culturale. Più che una nuova classe, dunque i nuovi nomadi si potrebbero definire una nuova tribù, come gli indiani d'america legati tra famiglie (tribes, sound systems), ma svincolati da un territorio dato, la loro socialità si potrà definire errante, deterritorializzata, eterogenea e padrona delle nuove tecnologie. Anche il nomade tribale tradizionale, nella sua erranza, non mancava di saldi punti di riferimento: le oasi, le sorgenti, i centri di rifornimento, i suk. Ecco allora che i nuovi nomadi dei raves entrano in gioco i teknivals, che sono come enclaves : cittadelle, basi di appoggio, "comuni", organizzati sulle basi e le esigenze di una grande tribù mobile.

"la festa è una festa, la gente va per divertirsi, però all'interno della festa scopri che la gente vive in un modo diverso e diretto e poi alla fine si creano delle comunità, ci sono dei microgruppi e poi c'è una comunità grossa, alle feste ritrovi le stesse persone,cioè, le conosci tutte, è un "villaggetto".[...] si forma un "villaggio", diciamo, sempre diverso.e da quel punto di vista lì è molto divertente.Si ritrova questo villaggio, sempre lo stesso, però sempre diverso nella sua organizzazione degli spazi, ad ogni festa, una settimana di qua, una settimana di là, le persone sono sempre più o meno le stesse, una volta una è qua una volta là." (Intervista a Bera)

".altre cose che mi hanno colpito tanto dei raves è quando ho conosciuto realtà un po' più vecchie, per cui i vecchi Spiral Tribe, con gente di una certa età coi bambini, quello si, quello mi aveva colpito, perché inizi veramente a pensare a un organizzazione sociale diversa, e infatti poi cercando scopri che c'è anche John Zerzan (un teorico anarcoide americano del primitivismo), ci sono i teorizzatori del nomadismo ma non solo, e comunque dal mondo "di qua" non te lo immagini che ci sia gente che può vivere così, come fai a immaginartelo." (intervista a kiara)

Il rischio è che le enclaves si trasformino in realtà vere ma chiuse, selettive, ripiegate su se stesse. E che la logica del denaro e del mercato entri anche nel suk.

"Poi però lì vengono fuori altre cose nel senso che in realtà ci si può accorgere da un punto di vista antropologico che si riformano altre strutture di potere, perché comunque l'esperienza, il tempo, e tutto quanto contribuiscono a creare altre piccole strutture di potere per cui tu ti ritrovi all'interno di questa scena ad avere una situazione più simile alla realtà esterna." (Intervista a Bera).

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