Cina Chung Kuo di M.Antonioni (Feltrinelli, 1972-2008)

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Il documentario di Antonioni sulla Cina maoista post "rivoluzione culturale", non raccolse nè i favori del regime cinese e dei simpatizzanti italiani, nè dei critici che lo accusarono di non prendere una posizione netta. In realtà Antonioni, non aveva intenzione di far trapelare un messaggio politico pro o contro il maoismo, ma di osservare la società cinese e il repertorio di gesti e abitudini del popolo. La proverbiale austerità senza lusso ma anche senza fame.

Nonostante il suo percorso fosse stato organizzato da funzionari cinesi che lo seguivano ovunque, Antonioni riuscì a mantenere un suo taglio personale, riversando la sua attenzione sulla quotidianità invece che sulle parate di bambini, il folklore di facciata e i luoghi artificiali imposti dal regime, filmati quasi con sforzo. Piuttosto che una voce narrante, scarnissima lungo le 3 ore e mezza della pellicola, il regista lasciò parlare poeticamente volti, edifici e panorami. Visitò sia le campagne che le grandi città, a iniziare da Pechino, fino a una Shanghai frutto esemplare del colonialismo occidentale, i cui palazzi europeizzanti sedi commerciali, furono consegnati ad un utilizzo amministrativo statale.

Lo Stato controllava tutto, non esisteva proprietà privata eccetto le abitazioni e qualche arnese da lavoro. Le fabbriche erano villaggi autonomi dove gli operai lavoravano e vivevano nei paraggi, in case il cui affitto era agevolatissimo. Nella scala salariale il capofabbrica guadagnava poco in più rispetto ad un operaio semplice, moltissime erano le donne. Nelle campagne delle comunità agricole, lavoravano per alcuni mesi all'anno anche gli studenti, una parte del prodotto rimaneva ai lavoratori, un'altra era dello Stato, i prezzi erano bassi e nei mercati vigeva abbondanza di merci che davano sfogo alla creatività della cucina cinese. Biciclette, mercati, cortili, odori e parto con agopuntura. La laboriosità fra terra e acqua.

Di primo acchito, tutto questo poteva sembrare il paradiso, e per molte persone di sinistra in Italia lo fu, lo stesso Bellocchio nell'intervista dice di esserne all'inizio rimasto favorevolmente colpito, ma recandosi in loco, come Terzani o Moravia dicono in alcuni passaggi del libretto allegato, poi si capì che questa grande utopia di uguaglianza sarebbe ceduta sotto il peso delle proprie contraddizioni interne e dell'isolamento internazionale, della mancanza di libertà e di una cultura totalmente manipolata, con la gente, vestita uguale, che andava in giro con il "libretto rosso" come una Bibbia.

Quando Antonioni entra in un paesino di montagna, gente che non ha mai visto un europeo in faccia, si nasconde, guarda di straforo le telecamere, nonostante siamo negli anni Settanta vige un'arretratezza culturale ineludibile. Quando Mao disse di aver tolto il feudalesimo dalla Cina e nei fatti anche dal Tibet, non ebbe tutti i torti, ma anche la sua idea di comunismo fu uno stato delle cose transitorio. La sua faccia gigante a piazza Tienanmen è ora nella Cina capitalista un controsenso ridicolo. Una cosa che colpisce dell'azione maoista, fu il tentativo di cancellare la cultura precedente, addirittura la Città Proibita rischiò di essere abbattuta. Oggi invece nel nome del capitalismo, interi quartieri caratteristici vengono cancellati per costruire grattacieli e brutture.

La Cina filmata da Antonioni è una continua scoperta e un documento di inestimabile valore, poichè immortala una società estinta che sembra appartenere ad epoche lontanissime nonostante siano passati solo 35 anni. Archeologia vivente su pellicola di un mondo, che nonostante i margini autoimposti e la coercizione, offre spunti per far riflettere la nostra epoca altrettanto fallimentare.


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