LP Cultural Amnesia - Press my hungry button (VOD, 1980-1983/2007)

Capita che certi gruppi sepolti dalla mancata diffusione di dischi e "critica", possano a quasi 30 anni di distanza incrinare tutti i paletti e le certezze che gli appassionati di un genere credevano di aver raggiunto, ponendosi come torre d'avorio nel deserto. Grazie a questa raccolta su Vinyl on Demand, l'ascolto non lascia dubbi: i Cultural Amnesia sono stati fra i più notevoli nomi degli 80s europei, riuscendo a sublimare uno stile wave-electro-pop-industrial di rara genialità sperimentale. Il terzetto inglese formato da Gerard Greenway, Ben Norland e John Peacock lasciò in testamento solo tre tapes tra il 1980 e il 1983, più una serie mirabile di inediti, su cui spiccano inspiegabilmente tre pezzi con testi splendidi di John Balance, su cui i Cultural Amnesia, camaleonti delle sensibilità pre/post-industriali, tesserono la loro trama spumeggiante di influenze: "Hot in the house" col suo incedere sonoro e vocale alla ClockDVA, la meraviglia "Scars for e", a metà fra Joy Division, Cabaret Voltaire e Bergland, e "Spoilt children", un bozzetto quasi residentsiano, sono tasselli mancanti di un mosaico, rivenuti alla luce come segreti da rilevare in seguito. Un eclettismo stilistico che si basa su un sound lo-fi registrato su due piste, polveroso tra synth, pianoline, fiati e corde da cantina metropolitana, cupo nelle voci curtisiane ma poi mutante verso frames spasticosi alla Minny Pops o permeanti un'epoca alla Adi Newton in versione più ruspante, fino ad un uso di chitarre sospese tra atmosfere amniotiche factrixiane. Quando decidono di darsi all'electro non disdegnano pure una cover degli Human League, "Being Boiled", e quando coverizzano in maniera clamorosa "Satisfaction", pur avendo tutti noi i Devo impressi nella memoria, qui la burbera acidità ringhiante, la spigolosità delle chitarre sfocianti nel noise e i synth sibilanti danno al pezzo stonesiano una marzialità malata che non risulta definitiva solo per abitudine d'orecchio. Fra i tanti ottimi pezzi presi dalle cassette, ricordiamo almeno la surreale "Magic Theatre" e l'onirica sospensione elettronica di "Beautiful song", la drogata filo-tuxedomooniana "Dead men don't talk", il trip hop ante-litteram di "Secrets of passive margin", fino alla tambureggiante full version di "The Uncle of the boot" sul 7" allegato. La trentina di brani si muovono fra ottime liriche e risoluti affreschi di un'espressività toccante, armonie stravaganti e ritmi scheletrici, sfumature di colori sciolti nell'acqua danno a tratti allucinazioni e smarrimenti. Ed è questa la loro forza, non avere briglie, grandi mezzi o una produzione mirata alle spalle, lasciando incontaminata una fantasia fanciullesca tormentata ma ghignante, galleria di paesaggi di tutti gli anni 80s. Straordinari.

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